“Quali misteri? Torino è patria dei burloni”


Togliere l’etichetta di città misteriosa, ridare il giusto posto alle suggestioni esoteriche suscitate da draghi, pipistrelli e mascheroni scolpiti sui palazzi di Torino. Dietro figure ritenute evocative del male c’è spesso una spiegazione sorprendente. «Ma quale magia? Spesso sono solo scherzi lasciati da architetti e operai. Questa è sempre stata una città di burloni».

Parola di Raffaele Palma (nella foto), sorriso luminoso e tante cose interessanti da dire. Da 30 anni gira Torino col naso all’insù: descrive e cataloga sculture, rilievi, lapidi, incisioni e la relativa aneddotica, per tracciare gli itinerari turistici «alternativi» che propone il Caus, Centro d’arti umoristiche e satiriche, da lui fondato nel 1984, associazione culturale senza fini di lucro. Con fini di satira. Missione numero uno: sdrammatizzare Torino.

Da una quindicina d’anni Palma vive a San Salvario, quartiere che nei suoi percorsi compare spesso: dal mistero rappresentato dai pipistrelli dell’«unica vera bat-caverna al mondo», in via Silvio Pellico angolo piazza Madama Cristina, ai draghi di via Saluzzo 21, ingiustamente ritenuti simbolo del male, in realtà posti a guardia delle persone oneste e leali; dalle curiose allegorie «lillipuziane» di via Baretti ai seni giunonici delle cariatidi di via Giacosa (in realtà via Campana, ndr), «arrivate in zona ben prima delle prostitute». Palma sa raccontare e divertire. «Le leggende magiche su rilievi e mascheroni – spiega – si sono diffuse dagli Anni 70, creando l’aura di città del mistero.

Ma senza fondamento: gli stessi aneddoti, con variazioni minime, circolano spesso anche in altre città del mondo». Un esempio: il mascherone sul Mastio della Cittadella, al di sopra di una porta finta. Simbolo del male? No, uno sberleffo ai nemici, che tentavano di forzare l’uscio. Quando si accorgevano dell’inganno, alzavano gli occhi al cielo e vedevano il mascherone che faceva la linguaccia.

La sua curiosità iniziò da bambino, a passeggio con papà che osservava monumenti, lapidi e sculture, e si chiedeva: «Chissà cosa rappresenta? Chissà cosa c’è scritto? Chissà cosa vuol dire?». Cresciuto, Raffaele ha cercato di rispondere. Impossibile dare un nome al suo mestiere. Umorista, comunicatore, un po’ storico dell’arte, un po’ artista, un po’ giullare, Palma ha insegnato satira all’Università, ha organizzato seminari sulla «terapia della risata», ha ideato «Torino black humor», negli Anni 90, manifestazione di umorismo nero nella grafica, illustrazione e vignettistica. E ha allestito molte mostre.

L’ultima è in corso alla biblioteca civica di via della Cittadella. Documenta immagini tenebrose e figure celestiali nelle decorazioni. Ma sia chiaro: le piume non segnalano passaggi di angeli, ma sono spesso allegorie classiche. E non c’è alcun rimando arcano in lettere e numeri sulle pavimentazioni: solo le sigle degli scalpellini.

di Paola Italiano, La Stampa (06/07/2011)

“1911, si gira il primo film con gli operai della Fiat”


Restaurata, ripulita, tirata a lucido come una gemma centenaria dimenticata nel fondo di un cassetto della storia, torna sugli schermi la prima testimonianza cinematografica sulla Fiat e una delle prime che presentano un’officina meccanica italiana. Dai dati a disposizione sul filmato Le officine della Fiat , titolo del documentario tornato oggi alla luce, non risultano le ragioni per cui sia stato prodotto da Luca Comerio. Ma è probabile che l’occasione sia stata la grande Esposizione internazionale del 1911 al parco torinese del Valentino, nella ricorrenza del primo mezzo secolo dell’unità d’Italia e dedicata alle industrie e al lavoro, ricorrenza che, come scrive Valerio Castronovo in “Un secolo di storia italiana” «non aveva solo consacrato il ruolo assunto dalla capitale subalpina nel campo della tecnica e della produzione. Quella manifestazione a cui era accorso un gran numero di visitatori anche dall’estero aveva affrancato la città da una patina di provincialismo e l’aveva accreditata come l’avanposto di una nuova Italia».

Siamo a Torino in corso Dante e come detto nel 1911. Datazione questa ricavata da un fotogramma del filmato in cui compare un uomo che tiene tra le mani una copia de La Stampa dalla cui prima pagina si è potuto risalire alla data di pubblicazione del quotidiano torinese. È l’anno della guerra di Libia per la quale la Fiat ottenne considerevoli commesse di autocarri militari. Anno in cui il cavaliere Giovanni Agnelli, non ancora del tutto sciolto da guai giudiziari, era tornato negli Usa dopo esserci stato la prima volta nel 1906, per studiare il successo della Ford model T, la prima utilitaria e le tecniche con cui questa veniva prodotta. Intanto la città di Torino, registrando 28 mila maestranze di cui tremila alla Fiat, 225 operai ogni mille abitanti, segnava un aumento della popolazione di diecimila unità all’anno e un numero di laureati al Politecnico che superava quello dei laureati in Giurisprudenza. Contemporaneamente la Fiat aveva raggiunto le 2600 unità prodotte in un anno, la metà di quelle fabbricate in Italia e aveva aperto sedi commerciali in Germania, Russia, Austria, Ungheria, Polonia, Francia, Regno Unito e New York. In segreto i suoi progettisti stavano studiando e progettando la prima utilitaria italiana, la Tipo Zero.

È su questo terreno, dunque, che bisogna scendere per apprezzare il breve documentario di cui si parla. Undici minuti di girato suddivisi in sette capitoli preceduti da altrettanti cartelli tematici: operai al lavoro, montaggio cambi di velocità, montaggio motori, prova motori, montaggio chassis, prova vetture, mezzogiorno. Ci si è chiesti se il filmato racchiudesse un’intenzione propagandistica. A giudicare dalle immagini non si direbbe. Il marchio di fabbrica non compare, infatti, che in modo obbligato e solo sui radiatori delle vetture in fase di montaggio. Se qualcosa del non detto prevale, questo riguarda invece l’intenzione descrittiva e un sommesso orgoglio manifatturiero.

All’esterno delle officine poche auto, strade deserte, silenzio intuibile e non per l’evidente mancanza del sonoro, una carrozzella, un passeggero e un cavallo, un tram aperto, un’edicola con pochi giornali. Tranquillità e misura. Identica atmosfera si respira all’interno dell’officina, ancorché i locali siano popolati di operai e tecnici al lavoro attorno ai pezzi, alle macchine, agli strumenti di lavoro, ai cassoni ingombri di materiali. Qualche ragazzo, nessuna donna, l’ambiente illuminato dalla luce artificiale diffusa da una selva di eleganti globi opacizzati che scendono dal soffitto nobilitandolo della loro presenza calda e cordiale. Gli operai indossano casacche di tessuto grezzo, molti hanno i baffi, non sembrano disturbati dal fatto di essere ripresi, lavorano, tirano focosamente di lima, uno in particolare desta attenzione per via di un fazzoletto legato al mento, segno di un probabile ma sopportato mal di denti. E siamo alla conclusione introdotta dal cartello: Mezzogiorno! annuncio che apre la sequenza dell’uscita per la pausa pranzo, pagina per altro antologica di per sé che segna l’inizio delle due ore di interruzione dal lavoro degli operai e dei funzionari, molti dei quali tornavano alle loro abitazioni. Tutti portano un copricapo nonostante la stagione mite. Così a giudicare dall’abbigliamento leggero. Berretti, lobbie, cappelli a larga tesa, panama, ma nessun basco.Qualcuno si scopre in segno di saluto rivolto a chi dietro la cinepresa sta riprendendo quella circostanza felice.

Si può dire che questo dell’uscita dalla fabbrica sia il momento in cui la fabbrica non c’è. Ma ciò non vuol dire che non si sente. Vista cento anni dopo, la ripresa in questione non nasconde, infatti, una riflessione inevitabile sulla città e il suo destino di essere «città pilota». Un destino che si paga col sentirsi il terreno di un’alternanza di successi e insuccessi, di aver dovuto rinunciare per tanti anni di essere città dei piaceri, come nelle parole di Vittorio Messori, città del cioccolato e della birra, sede della scienza triste di Cesare Lombroso, città fatalmente prediletta da Nietzsche, sede del più grande ricovero del mondo, una città «disturbata» dal suo essere stata capitale, città tornata oggi ad essere luogo di cultura non senza il rischio di cedere al farsi turistificio. Certo che in cento anni di strada e di giravolte Torino ne ha fatte e chissà quante ne farà ancora.

>LINK AL FILMATO SU LASTAMPA.IT<

di Oddone Camerana, La Stampa (06/07/2011)

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