Tra San Salvario e la linea di Gaza c’è un tragitto ideale. Che parte dalla storia delle straniere, dai loro occhi a volte imperscrutabili e «dal loro palare in italiano con i figli, rinunciando a molto del patrimonio culturale che le ha generate per aiutare i piccoli a integrarsi», dice la scrittrice torinese Patrizia Varetto.

E approda all’ideazione di una storia le cui protagoniste sono una torinese, Eleonora e una palestinese, Sahar. Una storia di dolore, ma anche di possibile riscossa e redenzione, quella articolata nel romanzo «Non credo al paradiso», neoedito da Instar Libri. La scrittrice torinese si cimenta ora con una trama elaborata e la necessità di corredarla con studi e ricerche più che puntuali. Il lungo conflitto ebraico-palestinese fa da sfondo storico all’avventura di Eleonora che, in apertura di romanzo, si ritrova in una casa di convalescenza, sopravvissuta al coma e al dolore per la morte di un figlio, evento di cui la donna è, in parte almeno, responsabile.

Il buio fuori e dentro la sua capacità percettiva, il risucchio della depressione, la volontà annullata non impediscono alla donna di avvertire, come primo sintomo della cicatrizzazione, la voce di un’altra persona sola, colpita e silenziosa quanto lei. è Sahar, giornalista palestinese, provvisoriamente infermiera che accudisce Eleonora nella casa di cura e le racconta, la sua condizione di giornalista esule, separata a forza, e forse per sempre, dai suoi due bimbi. L’incontro con Sahar sarà un lavacro di dolore e un passaporto per il futuro. Con passaggi attraverso l’orrido del progetto «Piombo fuso», con le sue incredibili mutilazioni, denunciate senza veli, e un viaggio alla ricerca di una bimba ferita da riportare a mamma Sahar.

«Tra le tante cose mi interessavano – spiega Patrizia Varetto – come la commistione fra il dialetto sardo della protagonista e la lingua araba della terra che l’accoglie, c’era, soprattutto, la capacità delle donne di non scansare mai i sentimenti. Di far proprio l’accudimento come un istinto trasmesso più per genere, che da madre in figlia. Quello che normalmente viene inteso come un segno di apparente debolezza, mi suscita grande rispetto, perché comporta molta forza e notevole capacità di cambiamento».

di Silvia Francia, La Stampa (06/11/2011)

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