“Lo studio è in un cortile di via Ormea. Grandi vetrate, tele accatastate, progetti, carta, pennelli e latte, contenitori e bottiglie, musica dalla radio mentre dal fornello a gas evapora solenne l’odore del caffè o di un pranzo arrangiato in fretta per far spazio al lavoro, lento e febbrile. Puntiglioso, quasi disperato.
Dal disordine emergono schizzi e prove, accenni di un discorso che continua da una vita, alla ricerca della soluzione definitiva. Carta, tela, pennelli e spatole, manciate di colore, sovrapposizioni, prove e rifacimenti come un magma cocente che si distende o rapprende per rappresentare una forma che diventa pensiero profondo: emozioni, stati d’animo, rapporti non svelati. Francesco Preverino ha la barba bianca e gli occhi di mare, profondo il suo sguardo e tenero il sorriso che dilaga da un mondo interiore pieno di perché.
Alla Galleria il Quadrato (Salone dell’ex Ghetto ebraico, via della Pace 8) l’artista inaugura una mostra a Chieri per raccontare la nuova tappa del suo lavoro. L’opera più grande – quattro metri per due – è un addio al colore, un arrivederci, forse, perché ora la sua ricerca va a decifrare la sinfonia del nero, il colore dominante delle altre opere in mostra. «In questo momento gli altri colori non mi interessano – dice -, trovo più interessante il nero, una sfida di luci e ombre, che non denuncia sofferenza, semplicemente mi soddisfa di più dal punto di vista plastico e della soluzione pittorica». Un’altra sala accoglie i bozzetti per i lavori che vorrebbe realizzare, in formato grande come alcune sue opere più recenti, una scultura consegnata a Roma per il Palazzo di Giustizia e la ceramica realizzata per la Questura di Frosinone.

Nato a Settimo, ha vissuto a Castiglione e passa gran parte del tempo in studio a San Salvario: «Qui si sta bene – ammette – c’è un clima di amicizia». E’ il nucleo della sua vita creativa, degli incontri fissi ogni settimana con gli amici per giocare a carte o discutere , per incontrare gli allievi più appassionati mentre il lavoro lo chiama all’Accademia di Belle Arti alla cattedra di Decorazione. Le mostre lo hanno portato a Barcellona, Amsterdam, New York e Shangai, e ha anche lavorato molto in Italia come docente alle Accademie. «Mi piaceva insegnare al Sud. Gli studenti erano affamati di apprendere».
Qui, aggiunge, il contesto sociale è diverso, e, nel frattempo, è cambiata anche l’Accademia che si è trasformata in Università. «Sembra un evento burocratico, invece comporta un mutamento fondamentale: l’umiltà del confronto si è dissolta e i giovani hanno perso punti di riferimento. I Maestri sono pochi. Abbondano i docenti, preparati, ma distanti dalla creatività pura. E questo sistema perverso coinvolge anche galleristi e critici che si entusiasmano per le soluzioni più eclatanti, arte «usa e getta». Nulla a che fare con il processo creativo che invoca studio, tecnica, ricerca estetica. I tempi cambiano, io faccio fatica ad adeguarmi».”

di Irene Cabiati, La Stampa (05/02/2011)

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