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Karim Metref è scrittore dell’esilio, nato in Algeria nel 1967, ha lavorato come insegnante nel suo Paese per circa dieci anni. La patria di Karim è però la Cabilia, regione che si estende a est di Algeri, lungo la costa mediterranea. E con la terra cabila, la patria di Karim è la lingua, quel dialetto berbero, il tamazight, con cui ha scritto i suoi primi racconti. E’ stato uno dei protagonisti della“Primavera berbera” che nel 1980, e per gli anni successivi, ha caratterizzato la lotta dei cabili per il riconoscimento della lingua e della cultura, e che è stata fucina per la formazione di intellettuali democratici in Algeria. Karim Metref, però, è tagliato per l’esilio come recita il titolo di un suo libro del 2006. Un esilio non solo dalla terra ma anche dalla lingua. Oggi vive a Torino, come scrittore e giornalista collabora con alcuni periodici tra cui Internazionale e Peacereporter.

E per quanto riguarda l’integrazione, qual è secondo lei la situazione in Italia?

In Italia non c’è un modello d’integrazione dei migranti come, ad esempio, in Francia. In Italia la situazione varia da città a città e le politiche d’integrazione sono locali. Attenzione però: nessun modello è realmente positivo, tutti mirano a una cancellazione coercitiva dell’identità. In Italia tutto è da costruire, ma anche questo non è un bene: mancano le più basilari politiche sociali, di integrazione e i diritti del lavoro per tutti.

Un grande scrittore polacco esule a Napoli, Gustaw Herling, disse che l’esilio fa orrore.

L’esilio fa orrore a chi non lo conosce. Noi siamo spesso in esilio ma non ce ne accorgiamo. Ci insegnano che l’esilio è solitudine, morte interiore, ma il peggiore degli esilî non è andare altrove ma vivere in un posto senza essere accettati. C’è poi l’esilio volontario, che è una prova di libertà. Non fa orrore. Una volta Mahmoud Darwish, il celebre poeta palestinese, mi disse che l’esilio c’è sempre: hai la patria fuori ma l’esilio dentro, o viceversa. Lo stato di esilio, la nostalgia che si sente quando si vive lontani dalla propria terra, ci è però imposto culturalmente e socialmente. Se abiti lontano da casa, allora tutti pensano, vogliono che tu abbia nostalgia, come spiega bene Milan Kundera nel suo L’ignoranza.

E il suo Tagliato per l’esilio mostra questo aspetto?

Il libro comincia con queste parole: “Sono nato in esilio sulla terra dei miei avi”. È una raccolta di racconti. I primi li ho scritti in Cabilia, nella mia lingua madre, poi li ho tradotti in italiano. Altri, invece, li ho scritti direttamente in italiano. Il filo conduttore dei racconti è, appunto, il tema dell’esilio, della ghorba, come si dice da noi. Ma è una ghorba intesa come non sentirsi nel posto giusto, cosa che avviene anche stando nella propria casa, nella terra dei propri avi.

Lontano dalla “patria” e dalla “lingua madre”, lei scrive in italiano: si può dire che la lingua di Dante sia un “genitore adottivo”? Si è mai sentito “orfano”?

No, non sono orfano. La mia lingua madre è il berbero ma ho anche una lingua “padre”, il francese, che mio padre insegnava nelle scuole. Ho poi una lingua “sorella”, ovvero l’arabo, e un paio di lingue “amiche”, cui mi sono avvicinato negli anni, l’inglese e l’italiano. L’aspetto della lingua è molto importante per un cabilo: la nostra lingua è stata fino a non molto tempo fa esclusivamente orale. Finché Mouloud Memmeri, nel 1980, non pubblicò una raccolta di canti tradizionali. La fissazione della tradizione ne ha di fatto comportato la morte poiché la tradizione è cangiante, si adatta al tempo in cui si trova. In Europa fissare su carta le fiabe ha significato imbalsamare la tradizione. Ma era un passaggio obbligato, quella tradizione si sarebbe persa senza l’opera di Memmeri. Dal 2005 la lingua cabila è insegnata nelle scuole, e non può non ritenersi un successo dopo secoli di persecuzioni. Oggi gli scrittori cabili pubblicano i loro racconti su internet, per non morire una cultura deve mutare e adattarsi.

Dopo tanti anni di esilio volontario, con le tante lingue in cui si esprime, che idea ha dell’identità?

Al collo porto il simbolo del popolo berbero, per anni l’ho mostrato come una bandiera. Un modo per dire: «Io non sono come voi». Poi ho capito che l’identità può diventare un’ossessione. La mia “cabilità” non è oggi motivo né di orgoglio né di vergogna. È una parte di me, la più intima forse, ma non è tutto di me. Uno scrittore berbero una volta disse: “Io parlo francese, scrivo in francese, ma non so piangere che in berbero”.

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