Tante sono le cose che cambiano, che non ci sono più, che rimpiangiamo, che ci sembrano fatti di ieri e invece è passata una vita, che lasciano l’amaro in bocca. Personalmente ne ho una che invece mi ha lasciato un sapore dolce nel palato, almeno come memoria gustativa. Si riferisce ad una vecchia latteria, che in realtà non aveva nulla di particolare: una latteria come molte altre degli anni Sessanta e Settanta, ma con una proprietaria che era simpatica – si chiamava Paola Bessone, ed è ancora viva – e che soprattutto provvedeva a rifornirsi continuamente di tutte quelle cose buone che sono irrimediabilmente scomparse, sostituite da surrogati in vendita nei chilometrici banchi-frigo degli iper-supermercati i cui gusti non è neppure lontano parente di quelli d’antan.

Per me, bambino, la latteria era l’appuntamento fisso del sabato sera, quando venivo regolarmente posteggiato a casa di mia nonna che abitava nell’ultimo portone di corso Dante, proprio davanti al ponte Isabella. Nel tardo pomeriggio – era ancora più bello se era già notte e faceva freddo, perché poi ci si godeva ancor di più il rientro con quel pacchettino in mano – si scendeva in strada e, dopo neanche un isolato, si svoltava a destra in via Tiepolo dove, accanto al commestibili Papà Tullio (che poi si sposterà sul corso, diventando uno dei primissimi mini-market della città), c’era la bottega – una vetrina sola – della signora Paola.

Che montava una panna meravigliosa sul momento e aveva il mascarpone fresco fresco e la ricotta dei margari: quella che si mangiava aggiungendo zucchero e un velo di cacao. Ma anche tutte le marmellate possibili e immaginabili, le caramelle in quei bei barattoli trasparenti che quando li aprivi venivi invaso da un’ondata di meravigliosi aromi, le “frise” di marron glaces, i formaggi delle valli attorno a Torino, un curioso parallelepipedo di marronata di castagne in una confezione di cartone verde, il latte della Centrale nelle bottiglie anonime con il tappo in alluminio rosso, la coca cola in bottiglia di vetro da 0,75, i gelati Chiavacci e chissà quante altre cose buone che adesso non ricordo più.

La signora Paola ha chiuso il negozio quando non era più una ragazzina, prostrata forse dagli anni o forse dall’apertura indiscriminata di nuovi punti vendita che vendevano i surrogati dei suoi prodotti a prezzi molto più bassi. Ma a me quel negozio manca molto, e mi fa male il cuore ogni qual volta, girando per la città, vedo vecchie saracinesche abbassare per sempre la serranda. Certe cose, ceri odori, certe sensazioni ai nostri figli e nipoti potremo solo raccontarli.

di Maurizio Ternavasio, rubrica “Questa è la mia città”, La Stampa

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