Articolo di Maurizio Ternavasio, rubrica “Questa è la mia città” de La Stampa, 26/11/2010

“I patti erano chiari sin da subito, in modo che nessuno avesse poi da lamentarsi o potesse accampare scuse improbabili: se ci si voleva iscrivere al torneo di calcio a sette dell’oratorio, c’era l’obbligo (preventivo) di frequentare la messa delle 8.
Quindi andava ancora bene (si fa per dire) a chi doveva scendere in campo per primo alle 9, malissimo agli ultimi, a cui toccava (ma per fortuna si ruotava) il turno delle 12.20, per due tempi da 25 minuti ciascuno: un’ora di messa e poi tre abbondanti di freddo.

Il problema grosso era lo spogliatoio piccolo. Anzi, i due spogliatoi che davano direttamente sul campo, senza nessun area di acclimatazione, con le docce prive di acqua calda. Poi il fatto che fossero solo due e strettissimi (si passava a fatica tra il muro e le panche per i vestiti) impediva il tranquillo turn-over dei giocatori che finivano per formare bolge indicibili di corpi, scarpette e indumenti.

Una volta che se ne usciva faticosamente fuori, c’era però la meraviglia del calcio ad attenderti: anche se il terreno di gioco aveva il fondo dei campi da bocce, le reti mancavano e uno dei due out era rappresentato dal muro di cinta della chiesa.
La formula era rigorosa: dieci squadre, composte da ragazzi delle medie, che si confrontavano tra loro con formula di andata e ritorno da novembre a febbraio. Quindi nella stagione in assoluto più fredda: e per regolamento le partite si disputavano con qualsiasi tempo, neve e temperature sotto zero comprese. Gli arbitri erano gli animatori dell’oratorio, che per fortuna di calcio qualcosa ci capivano.

La mia squadra, che non mi ricordo come si chiamava e neppure la casacca che indossava, un anno è arrivata seconda, e l’anno seguente prima: anche perché il nostro portiere era uno di prima liceo che aveva falsificato la data di nascita delle vecchia pagella di terza media, che valeva come carta d’identità.

Non vi dico la gioia, oltre che per le frequenti vittorie, nel rientrare al caldo di casa specie quando finivi l’incontro sulle ginocchia, inzaccherato da capo a piedi. E nel pomeriggio, se non si era troppo stanchi, si faceva il cammino inverso per assistere allo spettacolo delle 18 al cinema della parrocchia, per il quale fortunatamente non erano necessari altri atti di fede obbligatori.

Così, noi ragazzini amanti del pallone, passavamo le domeniche negli anni Settanta a San Salvario. E la chiesa in questione era quella del Sacro Cuore di Gesù di via Nizza, con annesso l’oratorio e, appunto, il cinema Cuore.”

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