In via Saluzzo 56, in un vecchio palazzo dei primi del Novecento, alto quattro piani, con i mosaici colorati alle finestre e la facciata senape, c’era una volta un grande appartamento di tre bagni e cinque camere dove vivevano un bizzarro signore, la moglie e due figli.

Il padrone di casa aveva la barba e i capelli arruffati, girava per le stanze in gilet e per strada usciva in accappatoio. Si chiamava Mario Molinari e trascorreva le sue giornate a dipingere facce e assemblare corpi, sognare mostri e plasmare angeli. Li creava col legno, la plastica e i metalli, e per loro inventava colori. Tempo prima, negli Anni Cinquanta, era stato un grande imprenditore. Lavorava come direttore nelle Cartiere a Coazze, poi capì che per essere felice doveva seguire l’istinto. Fu così che lasciò tutto per diventare ciò che era, ma non aveva ancora scoperto di essere, un grande artista.

E il suo nome fece il giro del mondo. L’appartamento c’era una volta e ancora c’è. Oggi ci vivono Pia, la moglie, e Jacopo, il figlio più giovane che oggi ha 28 anni. Il protagonista invece non più. E’ morto dieci anni fa e la formula «da questo posto non se n’è mai andato» sembra scritta apposta per i 450 metri quadri in cui lui ha abitato: basta varcare la soglia per passare dal pianeta dei comuni mortali, il pianerottolo, al paese delle meraviglie di Alice. Benvenuti in casa Molinari. «Tutto è rimasto come l’ha lasciato Mario – dice aprendo la porta Jacopo, magro come un chiodo – io e Pia non abbiamo nemmeno voluto ritinteggiare le pareti per paura di non azzeccare il punto di colore giusto». Mario e Pia sono suo padre e sua madre. Lui li chiama per nome perché, dice, «così è più affettuoso».

Oltre al ragazzo, nell’ingresso rosa di un rosa mai visto, ti ricevono la «Donna armadio» che tocca quasi il soffitto e le «Due zie», immense, che sembrano aspettarti lì da una vita: «Per vestirle ha usato gli abiti della nonna» ricorda Jacopo, una sigaretta via l’altra, mentre indica la gonna e le scarpe delle sculture. Sull’avambraccio ha tatuato la sagoma di un omino con i capelli sparati: «Questo sono io. Ho ricalcato un ritratto che mi fece, mi piace averlo con me». Nel salone verde fiaba, t’inchini al «Vescovo arrotino» che, seduto, attende anime da affilare. I muri della cucina parlano, è Molinari che continua a farli parlare. I listelli di legno sono zeppi di scritte e giochi di parole. «Quello che preferisco – dice Jacopo – è “io non mi abbono più perché poi è troppo difficile disabbonarsi”». Così semplice che disarma.

«Era un maestro – continua convinto – il suo pensiero era lineare. Mario ha fatto in modo che la mia vasca da bagno fosse riempita da chi? Dal rubinetto del “grande pisciatore”». Uno specchio a forma di pupazzo sorridente che butta giù acqua a gambe spalancate. Jacopo è orgogliosissimo di suo padre. Fa lo slalom tra le figure geometriche e indica i ritratti di Pia, i poster di mostre internazionali e un’opera incompleta, «Ortofrutticoli danzanti», che ricopre una parete intera e «sarebbe ancora più grande se una zuffa con Carmelo Bene non l’avesse rotta. La lite è scoppiata una sera a cena – racconta – si mangiava, si parlava, c’era un sacco di gente. Loro due hanno incominciato a discutere. Carmelo all’improvviso si è tolto il monocolo e ha detto “basta, ora ti sfido a pugni, usciamo”. E Mario: “Prova a battermi qui”. Sono saliti sul tavolo ed è cominciata la scazzottata che si è portata via parte della scultura».

Immaginare la scena davanti all’asta spezzata, fa un certo effetto. Ancor più emozionante è pensare che in quella casa-laboratorio, un’esplosione d’arte, di colori e di incontri rari, è cresciuto il ragazzo che oggi ti accoglie. E’ lui che con la mamma porta per il mondo «le scorie del corpo» di Molinari. «Così Mario mi spiegava il senso del suo lavoro – dice Jacopo – E’ un di più che il fisico non riesce a contenere e getta fuori sotto forma di invenzioni, costruzioni, visioni». Jacopo Molinari parla d’arte con la stessa disinvoltura con cui a ventotto anni si discute di moto.

Lo fa appoggiato al tavolo ricoperto di vernice, una tavolozza di tonalità che non esistono in natura: «Questo è il posto dove mi ha insegnato di più. Mario mi diceva che l’unica cosa che conta è la parola data. Pretendeva che fossi ordinato e puntuale. Ma sapeva anche rendermi la vita una festa, facevamo le serenate agli amici alle quattro del mattino e poi colazione insieme. Io col latte, lui della vecchia guardia preferiva whisky e sigarette. E’ morto per questo, beveva e fumava troppo, i suoi reni erano distrutti. Non andrò mai via da questa casa. Mio papà lo sento qui, ma mi manca molto». Dice proprio così Jacopo, che molla per un attimo il ricordo di Mario lo scultore, e si fa scappare «mio papà». Lo dice senza accorgersene, mentre saluta accanto alle squadrette che il padre artista ha lasciato appese allo stipite.

di Elena Lisa, La Stampa (19/06/2011)

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