Velan Center, organizzazione non profit per la promozione dell’arte contemporanea attiva dal 1993, è uno spazio espositivo aperto alla sperimentazione, nato in collaborazione con la Regione Piemonte. Dal 2009 si è spostato nella sua sede attuale in via Saluzzo 64, a San Salvario, Torino. In quasi vent’anni di attività, ha organizzato numerose mostre che investono le più diverse espressioni della ricerca contemporanea, alternando nomi di artisti internazionali e italiani, di tutte le generazioni, con una particolare attenzione ai giovani artisti del territorio



Conversazione con Francesca Referza 
di Giangavino Pazzola

Dopo la mostra di Vedovamazzei negli spazi del Velan Center di Torino, il 23 maggio 2012 ha inaugurato FIT, una mostra personale di Domenico Mangano (Palermo, 1976). Incontro il curatore Francesca Referza, per una conversazione sullo spazio e lo stato dell’arte nella Torino dei giorni d’oggi.
Qual è la tua concezione ideale di spazio e  l’orientamento operativo che hai portato in Velan?  
Sono dell’avviso che il mio lavoro vada sempre sviluppato in relazione al contesto. Velan è uno spazio no profit nato per volontà del collezionista Vezio Tomasinelli, in cui ho la massima libertà di azione e all’interno del quale le proposte sono piuttosto ampie. In linea di massima, ci prefiggiamo di lavorare con giovani artisti italiani ed artisti internazionali. Grazie alla partnership  con la Regione Piemonte, si è sviluppata nel tempo un’attenzione al territorio con il format Versus, nato nel 1995 da un’idea di Marco Meneguzzo. Oltre a questo ‘vincolo relativo’, abbiamo realizzato progetti specifici con artisti stranieri e sviluppato nuove letture di artisti italiani consolidati, con il format garage42. Garage42 cerca un confronto tra i differenti modi operativi di due artisti, dal quale emergano i punti di tangenza linguistici e di ricerca. Per le prime due edizioni di Garage42 abbiamo ospitato Davide Bertocchi + T-yong Chung e Loris Cecchini + Sabrina Torelli. Il prossimo appuntamento sarà con la pittura. Durante Artissima, solitamente ospitiamo artisti stranieri con un lavoro inedito in Italia com’è stato per Maya Bajevic e Annika Larsson. Per Artissima 19 abbiamo già in cantiere il progetto da sviluppare.
Velan è anche un luogo nel quale cerchiamo di promuovere dibattiti e serate evento. A febbraio, per esempio, Marco Enrico Giacomelli, vicedirettore di Artribune, ha presentato il nuovo libro di Maurizio Ceccato Non capisco un’acca. In quell’occasione, partendo dal lavoro dell’illustratore romano, sono state sottolineate le connessioni tra arte, grafica e editoria.  L’idea è quindi quella di uno spazio no profit che si proponga come una piattaforma neutra da sviluppare in un modo versatile. 
La sede di Velan è stata spostata più volte, da un’ex area industriale della provincia, a via Modena a Torino fino alla sua destinazione attuale nel quartiere di San Salvario. La possibilità di vivere il tessuto cittadino in più situazioni, sociali e culturali, credo possa aver contribuito nel rendere Velan uno spazio così  metamorfico, anche da un punto di vista filosofico, in maniera naturale..
Velan è nato in un ex lanificio a Carignano ed è stato credo uno dei primi esempi di spazio industriale destinato all’arte contemporanea. L’ambiente era straordinario per la rigorosa geometria dei volumi, la luminosità ed i metri quadrati a disposizione. Lì sono state organizzate delle collettive con curatori torinesi e non come Tiziana Conti, Marisa Vescovo e Demetrio Paparoni. La distanza da Torino, da una parte, dava grande libertà, ma aveva un limite, la fruizione da parte del pubblico che, com’è comprensibile, si concentrava nei weekend dell’inaugurazione. Vezio Tomasinelli sentì la necessità di spostarsi a Torino, cercando comunque uno spazio industriale. Trovò un’ex falegnameria in Borgo Rossini, quartiere nel quale erano presenti altri spazi legati all’arte, studi d’artista e laboratori teatrali. Personalmente, nella vecchia sede di via Modena ho curato due edizioni di Versus. La sede attuale è in San Salvario, che è un laboratorio di integrazione socio culturale di comunità diverse. È un ambiente nel quale c’è un dinamismo straordinario tra ristoranti etnici, magazines di quartiere e spazi indipendenti . Essendoci trasferiti relativamente da poco, non abbiamo ancora lavorato sul quartiere, ma abbiamo questa intenzione. Vorremmo fare dei laboratori didattici ed avere un dialogo più stretto con ciò che ci circonda, essere promotori di una serie di attività che possano integrarsi con la programmazione di arte contemporanea. 
Facendo un passo indietro, hai parlato di convenzione con la Regione Piemonte. Questo Ente ha predisposto governance di sviluppo del settore e ha mostrato la volontà capacità di fare e creare rete per quanto concerne le realtà culturali e museali. Che tipo di differenze hai notato rispetto alle altre regioni italiane?

Da un punto di vista lavorativo, nella mia regione, l’Abruzzo, negli anni in cui sono stata lì, dal 2008 al 2011, ho riscontrato non poche difficoltà nello sviluppo dei progetti di arte contemporanea. Ci sono diversi soggetti che portano avanti il discorso sul contemporaneo, ma che non sono supportati  dalle istituzioni, per cui tutto risulta molto parcellizzato e poco visibile all’esterno. Quando nel 2001 sono arrivata a Torino, ho subito constatato la generale vocazione al contemporaneo della città, che si traduceva in capacità di fare sistema e di supportare ciascuna realtà aldilà dalle differenze di mission. Negli ultimi anni in Piemonte ho notato un cambiamento nella strategia di promozione dell’arte contemporanea, determinato dal post olimpiadi e dalla recente crisi che sta lasciando segni tangibili ovunque. Posso comunque dire che il sistema piemontese ha tenuto abbastanza. Sicuramente, dall’inizio del 2000 e fino alle Olimpiadi, c’erano delle cifre differenti a disposizione del settore, cifre che attualmente sono state ridotte. Oggi le istituzioni continuano a supportare le diverse realtà del contemporaneo, magari centellinando le risorse, ma l’impegno non è venuto del tutto meno. Bisogna sottolineare, però, che se non ci fosse stato il supporto dei privati, il sistema del contemporaneo non avrebbe avuto continuità. Il lavoro quotidiano va alimentato, anche se a volte si fa un po’ fatica.
Parlando dei tuoi temi di interessi per la ricerca progettuale, quali sono  i temi che tieni più sotto la lente di ingrandimento? Hanno un’applicazione pedagogica verso il pubblico?
La mia formazione è da storica dell’arte. Dallo studio della scultura con Enrico Crispolti presso la Scuola di Specializzazione di Siena, nel 2003 sono approdata alla Fondazione Sandretto Rebaudengo a Torino ed  il mio primo interesse è stato per quel tipo di ricerca che stabilisce una relazione fisica con lo spazio. Successivamente ho allargato il mio interesse dallo spazio fisico a quella storico, sociale ed economico. Per quanto riguarda i mezzi, non ho esclusioni: prediligo l’installazione, il video ed il disegno, ma non mi precludo la fotografia e la pittura, anche se linguisticamente mi sono meno vicine. Non sono vittima di uno snobismo linguistico. Credo che la pittura, in Italia, non abbia la possibilità di esprimersi liberamente per via del peso della storia che ha scritto, ciononostante ritengo che sia un mezzo molto contemporaneo. Sta a chi lo sceglie, dimostrarlo. Per quanto mi riguarda, ne faccio più che altro una questione di qualità. In Italia abbiamo un pregiudizio sulla pittura: se ne vede ancora poca e, quando c’è, si tende a ghettizzarla. In altri paesi c’è molta disinvoltura nell’uso della pittura e c’è anche molto mercato. 
Parlando di pubblico, personalmente non mi pongo mai a priori obiettivi didattici o educativi. Mi piace tuttavia l’idea di comunicare qualcosa con quello che faccio.  In generale penso che il pubblico italiano abbia scarsa confidenza con il contemporaneo e con l’arte visiva in generale. Il sistema scolastico, in tal senso, ha dei limiti oggettivi, basti pensare alla recente drammatica riduzione della materia ‘storia dell’arte’. La formazione universitaria, accademia compresa, non compensa questa lacuna. La proposta culturale (didattica ed espositiva) delle istituzioni museali, da sola, non è sufficiente. Il risultato è che nel nostro paese, soprattutto in momenti di crisi, la fruizione delle mostre da parte del pubblico generale è piuttosto bassa, al contrario di paesi come Germania o Inghilterra o Stati Uniti, in cui sembra essere rimasta costante. L’impressione è che da noi il pubblico più generale sia incuriosito dal contemporaneo, ma che si senta fondamentalmente respinto da esso sia perché non ne possiede i codici di accesso, sia perché il nostro ambiente pecca molto spesso di autoreferenzialità.
In un’ottica progettuale, come ti poni professionalmente rispetto ad un periodo di crisi come quello attuale? Il tuo approccio al lavoro è cambiato?
Avendo fatto una gavetta piuttosto impegnativa (i miei riferimenti sono stati Emanuela De Cecco alla Sandretto, Sergio Risaliti di cui ho fatto l’assistente per un po’ e Giacinto Di Pietrantonio con cui ho condiviso la curatela di alcune mostre), non ho patito molto la crisi. Faccio il curatore freelance dal 2007 ed ho sempre avuto dei committenti privati molto disponibili in termini curatoriali, ma anche molto rigorosi del rispetto dei budget. Il patto economico e progettuale è sempre stato chiaro, quindi non ho avuto contraccolpi in tal senso. Per esempio l’anno scorso ho curato una collettiva di  progetti site specific insieme a Giacinto di Pietrantonio per una Fondazione abruzzese, ho seguito un artista in residenza in Abruzzo per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ho seguito due appuntamenti al femminile per 91 mq in uno spazio no profit di Berlino con un piccolissimo budget, ho condiviso tre progetti molto intensi con Maria Rosa Sossai per il Dipartimento Cultura del PD nazionale all’Aquila, in autunno poi la collettiva Versus e il progetto di Maja Bajevic per Velan.  Dunque  in un solo anno ho avuto moltissimi impegni, nonostante le economie fossero già rallentate. Ho dei committenti costanti nel tempo, ovviamente ai vecchi se ne aggiungono di nuovi ed altri si allontanano, com’è naturale che sia. Sono molto flessibile e credo sia ciò che deve fare un professionista di questi tempi, adattandosi al committente. La mia filosofia è: ascoltare il committente e valutare se mi interessa o meno. Ciò che tengo come punto fisso sono i miei interessi, la linea che seguo non va mai troppo oltre quello che ritengo di dover fare. Piuttosto, se delle cose non mi interessano, non le faccio. Sulle scelte cerco di mantenere la massima coerenza, dando più importanza  a ciò in cui credo che alle priorità di ordine economico.
Creare, esporre e collezionare arte contemporanea sono delle pratiche che hanno delle ricadute anche a livello di rigenerazione urbana e sociale. Come vivi le questioni legate alle dinamiche di gentrification che si innescano in conseguenza alla presenza dell’arte nei quartieri popolari?
Il discorso è molto complesso ed è difficile risolverlo in pochi minuti. Credo che l’arte si diffonda con più rapidità, nei contesti nei quali sussistano delle condizioni economiche favorevoli. Penso a Berlino per esempio. Dopo la caduta del muro c’è stata la necessità di integrare la parte est con l’ovest è questo ha significato per un bel po’ prezzi contenuti ed un costo della vita nella media più basso che in altre capitali europee, condizione che ha favorito il trasferimento a Berlino di moltissimi artisti stranieri ed operatori del settore. Tuttavia l’arte è comunque un prodotto di lusso che dunque segue dinamiche economiche piuttosto esclusive, che popolari. Ci sono due tipi di arte: una intesa come forma di connettività sociale, che nasce in strada e si rivolge alla strada e poi c’è quella con finalità commerciali e d’investimento, che si trova in un circuito dell’economia discreto, ma a mio avviso piuttosto ampio a livello mondiale. Questo non vuol dire tuttavia che non si possano trovare punti di incontro tra le due forme di arte. 
Passando dalla teoria degli studi alla realtà della pratica, ho naturalmente scoperto dei meccanismi nuovi e molto affascinanti del mondo dell’arte contemporanea. L’arte è una forma di comunicazione che vive le stesse dinamiche sociali ed economiche di altre forme di comunicazione. Di recente mi interessa più da vicino, oltre che professionalmente, il mondo del collezionismo.




FIT
a cura di Francesca Referza

dal 24 maggio al 7 luglio 2012
dal giovedì al sabato dalle 15.30 alle 19 e 30

Velan, centro d’arte contemporanea
Via Saluzzo 64
10125 Torino
tel 011 28 04 06

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