Un condominio di via Saluzzo gela i sogni di un giovane afghano

E così si scopre che il nome Kebab Kabul, in quanto tale, non va bene. «Non è decoroso per un palazzo storico». «Evoca brutti pensieri». «Rovina il prestigio dello stabile». «Non è razzismo: è solo che non c’entra niente con noi». Noi e loro. Latitudini, pregiudizi. Certe volte basta una parola su un’insegna per innescare la paura.

Il fronte del no 
A Tofan Wardak l’hanno detto senza tanti giri di parole, passando di fretta nel suo locale nuovo, in via Saluzzo angolo corso Vittorio Emanuele: «Se cambi l’insegna, se lo chiami “Kebab Torino”, oppure meglio “Gastronomia”, ti firmiamo subito l’autorizzazione». A lui è sembrato un brutto modo di fare, quello degli amministratori del palazzo. Qualcosa di violento, anche se fatto solo con le parole. Qualcosa che adesso lo rende preoccupato di tutto e dispiaciuto, quasi sul punto di rinnegare la sua città: «Cambierei per evitare discussioni. Ma ho speso tanto per le insegne. Ho fatto fare le magliette e i cappellini, ho messo il nome sulla partita Iva. Dovrei ricominciare da capo». Ecco, il fatto è proprio questo. Prima di riuscire ad aprire il locale a San Salvario, nel cuore della città accogliente e multietnica, Tofan Wardak di strada ne ha fatta parecchia.

Addio alla famiglia 
Ha 23 anni, suo padre era un generale dell’esercito. Lui è stato un poliziotto. Ha combattuto contro il talebani. È partito con il fratello Shahin, due anni fa, per ragioni di sicurezza. Sette mesi di viaggio infernale. Poi Bari, Torino, un campo della Croce Rossa, il Sermig, le pratiche per ottenere lo status di rifugiato politico. E quando finalmente era in pace e in regola, sua madre ha deciso di vendere la casa di famiglia a Kabul per potergli mandare dei soldi. Gli ha spedito 30 mila euro per una nuova vita qui. Ovvio che gli sia sembrato naturale chiamare il suo locale Kebab Kabul: «Per il legame con la mia terra, per la gratitudine nei confronti di mia madre, per fare vedere che i ragazzi afghani sono uguali a tutti gli altri». Lo dice un po’ in inglese, un po’ in italiano. Ha studiato molto per prepararsi al suo nuovo lavoro. Ed ecco quello che ha fatto appena ricevuti i soldi: due mesi per scegliere il posto, nove locali visitati, quindi le pratiche. Il permesso in Comune, il sopralluogo dell’Asl, la partita Iva, i documenti alla Camera di Commercio. La burocrazia riempie una cartellina alta una spanna. I lavori di ristrutturazione sono durati un mese. Appesa alle pareti arancioni c’è una sola fotografia. È quella celebre di Sharbat Gula, 12 anni, orfana di guerra, pubblicata in prima pagina su National Geographic. Insomma, era tutto pronto. Mancava solo la canna fumaria. Ma per ottenere il permesso di andare sul tetto ci sono voluti quattro mesi. Ecco dove Tofan Wardak ha incominciato a capire che il suo locale non era molto gradito al condominio.

Insegna nascosta 
Nove giorni fa ha aperto. Ma subito gli hanno detto di coprire le insegne con dei giornali perché non aveva ricevuto l’autorizzazione. Lui e il fratello non hanno fatto una piega: «Abbiamo attaccato dei giornali sull’insegna nuova, anche se l’effetto non è molto bello. Molti non entrano perché pensano che ci siano ancora i lavori». L’insegna è granata. Non c’è scritto altro:«Kebab Kabul». Prima qui c’era un Phone Center con relativa scritta. Insomma, lo spazio era previsto. Ma il regolamento di condominio adesso si arroga l’ultima parola sulla scelta del nome. Benvenuto in Italia, Tofan.

Dall’amministratore 
Ieri pomeriggio siamo stati assieme un’ora dall’amministratore. Il quale, con una marea di parole, ha ammesso che sì, in effetti il nome non è molto gradito: «Forse un’insegna più neutra avrebbe maggiore possibilità di essere approvata. Dovremmo iniziare a discuterne al più tardi all’inizio di aprile». Il custode del palazzo parla con meno perifrasi: «Kabul non piace. Non è la mia opinione ma quella dei consiglieri di condominio. Kabul non si sposa con il prestigio dello stabile». In testa ai contrari ci sarebbe un avvocato, ma non l’abbiamo trovato e sua moglie preferisce glissare. Parla invece il signor Andrea Novali: «Kebab va bene, Kabul no. Non piace. Ma non è un discorso di razzismo. Questo è un palazzo d’epoca, è come se mettessero la parola Kabul davanti alla Mole Antonelliana».

Il sogno infranto 
Così il sogno di Tofan si incarta sull’ultimo metro. Ogni giorno passano a controllare. Ora non va bene neanche la canna fumaria nuova. Una sera, quando l’amministratore è venuto ad accertarsi per l’ennesima volta che l’insegna fosse oscurata, Tofan Wardak ha chiamato la polizia: «Se ritiene di subire un torto, sporga querela». Ancora carte. Sempre carte bollate. Ma non tutti nel palazzo sono contro il nome Kabul. Per esempio, Celso Zappalà: «Capisco le lamentele per l’odore di fritto, è fastidioso. Ma non ha nessun senso discriminare una città». Tofan Wardak ascolta tutti e non sa cosa fare. «Io vorrei solo lavorare. Ho chiamato mia madre, lei non capisce. Mi dice: “Ma quanto tempo ci metti a fare il tuo dovere?”».

di Niccolò Zancan, La Stampa (07/03/2013)

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