Il reportage de La Stampa dal tramonto all’alba:
Giovedì 5 aprile, 19,50. Il sole tramonta in Largo Saluzzo. Siamo di fronte a una delle quattro chiese di San Salvario, quella di San Pietro e Paolo. Partiamo da qui, ma potremmo partire dal Tempio Valdese, dalla Sinagoga, oppure dalla Moschea all’interno di via Saluzzo: in una manciata di metri convivono quattro religioni. Un esempio emblematico della “vastità” del quartiere, qualcosa di impossibile da esaurire in una notte, anche solo la porzione ridotta che ci siamo dati (il quadrilatero compreso tra corso Vittorio, corso Massimo, via Valperga e via Nizza).
20,14. Galo, artista e fondatore della Galo Art Gallery, è in via Saluzzo dal 2010 e, come ogni primo giovedì del mese, presenta una nuova mostra. I protagonisti sono street artist di fama internazionale ma anche talenti emergenti. “Dopo dieci anni ad Amsterdam sono tornato a casa. Ho trovato questa ex ferramenta chiusa da anni e ho aperto. Cerco di portare in galleria lo stesso spirito della strada: il muro più grande è a disposizione degli artisti ma lo ridipingiamo ogni mese, a confermare che la street art è qualcosa di temporaneo.” Stasera espongono l’olandese Sjoco Sjion e la torinese Sister Flash, stili diversi, da vedere.
20,38. Un pubblico vario affolla il marciapiede davanti al CineTeatro Baretti, dove sta per andare in scena un concerto per due voci, violoncello e percussioni. Ci intrufoliamo. Alberto, 45 anni, si occupa della direzione di sala da quando hanno aperto, dieci anni fa. “In questi anni il quartiere è migliorato, di certo oggi è più sicuro, ma si è persa la dimensione del borgo. Chiude una vecchia osteria e ci fanno un messicano, chiude una vecchia bottega e aprono un cocktail bar. Non sono sicuro che sia un grande miglioramento. Di giorno sta diventando un quartiere con le serrande abbassate, solo locali notturni.” Per la verità qualche nuova bottega apre anche. In via Ormea, da dieci giorni, Marco, Luca e Fox hanno aperto la Ciclofficina Artigianale, dove riparano e restaurano biciclette. Il locale è stipato di due ruote all’inverosimile e, alle nove, sono ancora al lavoro. “Questa è la prima attività vera e propria che viene fuori dalla nostra esperienza associativa: insegnavamo a riparare bici ai detenuti del carcere minorile, ma poi son finiti i fondi.” “Il quartiere risponde? Ovvio che sì. Sempre più gente si muove in bici e con il bel tempo è un periodo di super lavoro.”
21. Filippo, 40 anni, fa parte di ManaManà, uno dei tanti fili del tessuto associativo del quartiere. Hanno inventato Senza Moneta, il mercatino di libero scambio, e il progetto Ri.Nuovi, insieme all’associazione Bazura. Parla con passione, occhi accesi: “Sono entrambi progetti nati per allungare la vita degli oggetti: non buttare via, puoi scambiare o ricreare qualcosa.” Sulla rinascita di San Salvario ha parecchie perplessità: “Sembra che a Torino, per riqualificare un quartiere debbano per forza arrivare i locali. Davvero non ci viene in mente nient’altro?”
21,15. Le strade sono affollate, i ristoranti pieni. Tra gli esercizi commerciali aperti c’è anche la Libreria Trebisonda, aperta un anno fa da Beppe (che ora si è spostato alla Luna’sTorta di via Belfiore) e Malvina, che si ferma a fumare una sigaretta con noi. “Trebisonda era un porto sul Mar Nero: un crocevia, un punto di riferimento importante, da cui l’espressione ‘non perdere la Trebisonda’. Anche questo posto vuole essere un crocevia. Così cerchiamo di vivacizzare l’offerta il più possibile, facciamo progetti per i bambini, ospitiamo corsi di lingue e di scrittura. Tenere aperto la sera è un segno di questo tentativo: è faticoso, ma la risposta è buona.”
21,40. A proposito di libri: qualche mese fa è uscito per Graphot il volume “San Salvario”, un appassionato viaggio alla scoperta del borgo scritto da Mario Bianco e Massimo Scaglione, con l’orgoglio di chi ci vive da sempre. Alcuni, ultimamente, sono meno orgogliosi. Sara, 38 anni, residente, si sfoga davanti alla Cuite, in via Baretti: “Sono venuta a vivere qui nel 2005 perché mi sembrava un posto a misura di famiglia, ben servito dai mezzi pubblici, con il Valentino, il mercato di piazza Madama… ma ora sta cambiando troppo.”
22,05. Tra i tanti cambiamenti c’è anche la Casa del Quartiere di via Morgari. È uno spazio aperto a tutti gli abitanti dagli 0 ai 99 anni: ha aperto nel 2010 e presenta un calendario di corsi e iniziative così fitto da essere difficilmente riassumibile (basta dare un’occhiata sul sito www.casadelquartiere.it). C’è un grande cortile con un palco attrezzato (in questo momento è in scena uno spettacolo davanti ad almeno trecento persone), una caffetteria, una banca del tempo, sportelli e spazi di informazione e di ascolto, sale, etc. Giulietta, 39 anni, è il Presidente dell’Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario, l’organizzazione no profit che raccoglie 23 associazioni e che ha dato vita alla Casa. “Qui c’erano i vecchi Bagni Pubblici, abbandonati da oltre dieci anni. Siamo riusciti a recuperare l’immobile con l’appoggio del comune, della circoscrizione e di parecchi privati. Oggi siamo aperti dalle nove a mezzanotte e di fatto ci autofinanziamo affittando gli spazi e con varie attività di fund raising.” “Qualcuno si lamenta per il rumore?” “Alle dieci facciamo spegnere la musica fuori, cerchiamo di limitare il più possibile quella interna. Il problema esiste in tutto il quartiere, ve lo dico io che ho la camera da letto sopra due dei locali più rumorosi. Ma i locali, piaccia o meno, hanno contribuito alla riqualificazione del quartiere. Adesso torno a casa in bici e so che posso farlo in sicurezza, che non è più un posto abbandonato a se stesso. E il venerdì e sabato – ormai sono abituata – metto i tappi.”
23,10. All’angolo fra via Belfiore e via Giacosa un mastodontico Hummer bianco è parcheggiato di taglio. All’angolo tra via Pellico e via Belfiore staziona un gruppo di pusher neri. All’angolo fra via Baretti e via Sant’Anselmo la gente quasi blocca la strada. Sergio, 38 anni, è uno dei soci dello Sbarco, insieme ad Alberto e Stefano (lui e Stefano si alternano in cucina con una formula originale: una settimana a testa). “Io mi son fatto le ossa all’Imbarchino per sette anni. Poi, nel 2008, abbiamo aperto qui. Cos’è cambiato da allora? Tutto. E in peggio. Io sono un commerciante e l’attività va bene, non mi lamento, ma questo quartiere si sta snaturando. Ci hanno detto che, solo ad aprile, apriranno undici nuovi locali.” In effetti l’offerta sembra già molto superiore alla domanda. Parecchi bar sono semideserti. Altri funzionano bene: in via Berthollet, davanti all’Astoria (che, insieme alle neonate Lavanderie Ramone, è uno dei locali con la più larga offerta di concerti e dj set) ci saranno almeno cento persone.
24,30. Giorgio – 46 anni, architetto – ha dato vita ad una sorta di “co-housing” nel palazzo di Via Goito in cui abita. “Abbiamo deciso di mettere in condivisione una serie di spazi.” C’è una lavanderia comune, una terrazza con un lungo tavolo, un barbecue e, sul tetto di un basso fabbricato dove ha sede il suo studio di architettura, un orto urbano tra i più notevoli del quartiere. “È andata che qualche anno fa dovevamo coibentare il tetto e il sistema più economico era metterci sopra della terra. Da lì abbiamo iniziato a piantare e ci siamo appassionati, abbiamo anche stampato un manuale, Our Secret Garden”. Il risultato è una produzione notevole. “Io a casa mia ho piantato i pomodori.” Scuote la testa: “È un po’ presto, sai?”. Porcaccia la miseria.
1.45. Dietro il bancone del Sud, in via principe Tommaso, c’è Max. Arriva dal mondo della musica e questa connotazione non si perde: il circolo ha anche uno studio di registrazione e una sala prove in via Berthollet, mentre lui porta avanti il suo progetto musicale, Max Mc Mörte. Il locale è un punto d’incontro per molti musicisti del quartiere, come il cantautore Federico Sirianni, genovese trapiantato a Torino, premio Tenco e mille altri riconoscimenti. “Senti, eravamo qui per raccontare l’ennesima ‘next big thing’ di Torino e abbiamo scoperto che stanno già tutti prendendo le distanze. E tu?” “Sono perplesso. San Salvario si sta quadrilaterizzando. Io ho scritto una canzone, ‘Il barrio non è qui’: uno sfogo d’amore per questo quartiere che ho amato da subito, perché mi ricordava i vicoli di Genova, e che mi dispiace veder cambiare. Si è passati dalle vecchie rivendite di vini e liquori all’apericena. Ma è così anche a Genova. Perciò credo sia un processo irreversibile.”
3,05. I locali sono tutti chiusi, ma facciamo in tempo a intercettare Francesca, vicedirettrice di Paratissima, la manifestazione di arte contemporanea dedicata agli emergenti che nel 2010 ha portato nel quartiere oltre 100.000 visitatori in cinque giorni. Con lei andiamo a omaggiare San Salvario, la chiesa del Castellamonte che dà il nome al quartiere, posta in via Nizza all’innesto con corso Marconi. Fabrizio scatta. Passano quattro peruviani su una Punto nera. Un uomo dorme sulla panchina vicino alle griglie della nuova metro. 3.15 “Si dà a Paratissima un grande ruolo sull’esplosione di San Salvario, – riflette Francesca, – ma in realtà Paratissima ha solo aiutato qualcosa che già esisteva. Qui negli anni ’90 i prezzi delle case erano bassissimi: era un fuggi fuggi per via dell’immigrazione, c’era un degrado che oggi sembriamo aver tutti dimenticato. Ma come succede in ogni città del mondo, là dove i prezzi son bassi, arrivano i più curiosi, i meno paurosi. Artisti oppure ex-studenti di architettura, che già conoscevano la zona, hanno iniziato ad aprire i loro studi qui. E piano piano tutti si sono accorti che l’immigrato non era il nemico, e che questo è uno dei quartieri più belli della città: centrale, super servito, con tutte case d’epoca, il Po e il Valentino. La vera sorpresa è quanto ci abbiamo messo a capirlo.”
3,33. In via Nizza c’è uno di quei locali stipati di distributori automatici. Oltre a bibite e generi alimentari si possono comprare mutandine commestibili al gusto liquerizia, ritardante spray e bambole gonfiabili. Nella fila sotto dello stesso apparecchio: sardine in scatola, frutta sciroppata e polpa di pomodoro. Più avanti, sotto i portici, siamo solo noi. Horas Kebab in via Berthollet è strapieno di reduci della nottata. Un ragazzino guarda Al Jazeera sul monitor d’angolo, ipnotizzato.
4,40. Piazza Madama Cristina. Il 18 passa sferragliando. Tre uomini montano i primi banchetti del mercato. Uno di loro è Norberto, cubano, 65 anni, in Italia da dieci. “Mi alzo alle 3:40 sei giorni alla settimana e arrivo qui verso le 4,10. Monto il banchetto per il mio principale, poi stiamo qui fino alle due del pomeriggio. È dura? No. Qui riesco a vivere. Ogni anno torno a Cuba, lì sì che si sta male. I torinesi? Gente gentile.”
5:30 La piazza del mercato è in fermento, aprono due bar, il giornalaio: nel mio campo d’azione ci sono 11 persone, compreso un pensionato con il suo cagnolino. Il rumore di fondo è cadenzato, ritmico: sono le palette degli addetti ai banchi del pesce che raschiano il ghiaccio tritato per disporlo sui piani. Siamo appoggiati al bancomat dell’Unicredit, immobili da venti minuti. Sembriamo quei due del film Clerks, Silent Bob e quell’altro.
6.10. Risaliamo via Baretti tra un cinguettio di uccellini, tipo film di Walt Disney, poi passa il camion dell’immondizia. Largo Saluzzo è deserto. Rimettiamo il cavalletto in posa davanti alla chiesa e aspettiamo l’alba, ma l’alba non arriva. Un barbone dorme davanti alla chiesa, tossisce sotto la coperta. Si alza, fa qualche passo, tossisce forte, si schiarisce la gola, poi si rimette a dormire. Albeggia. Mi viene in mente che, quando ero ragazzino, San Salvario era l’unico posto vivo della città. Qui c’erano l’Hiroshima, il Tuxedo, lo Yokese, il Cammello, Bells & Flowers, la Marconi, lo Studio 2… Vi ricordate?
di Enrico Remmert, La Stampa (08/04/2012)