Sulla scia di Botteghe&dintorni su La Stampa è uscito questo reportage notturno sulla panetteria Ficini, di via Berthollet 30. Alla scoperta dei misteri del pane, con fotogallery.

Dal tramonto all’alba: la vita del panettiere

Dalla farina versata a sacchi nelle impastatrici alla vendita al pubblico
Una corsa contro il tempo, fatta di gesti sperimentati e sempre uguali negli anni

Giovedì 18 ottobre, mezzanotte. La nostra randagia esplorazione della Torino notturna stavolta ci porta da un fornaio: Ficini, a un passo dal mercato di piazza Madama Cristina. Tra i molti contattati è stato l’unico disponibile ad accettare la nostra presenza per tutta la notte. Manco mordessimo (al limite, come in questo caso, addentiamo…).

24,40. Ben oltre il tramonto – avvenuto verso le sette, quando il panificio era ancora aperto alla clientela – percorriamo una San Salvario insolitamente tranquilla. In via Berthollet 30, come convenuto, bussiamo alle serrande. Ci accolgono Alessandro e Franco, due componenti di quell’immenso e invisibile esercito che ogni notte panifica in città.

I grissini
1,10. Nel mondo del pane Torino ha un ruolo unico. Il grissino, famoso in tutto il mondo, risale al Trecento quando il pane non si vendeva a peso ma in cambio di una moneta. Durante l’inflazione della seconda metà del secolo, la forma di pane tipica torinese – la gherssa, simile alla baguette – divenne sempre più sottile, tanto che i consumatori cominciarono a chiamarla gherssin. Da qui l’odierno grissino, ben presto apprezzato quanto il pane.

1,31. Franco, 66 anni, è panettiere da quando ne aveva 13. Ha un fisico nodoso e due occhi accesi: “Mio padre era panettiere. Io e i miei cinque fratelli, tutti panettieri. Le nostre quattro sorelle: commesse di panetteria. Mio figlio: panettiere. E le mie due figlie commesse di panetteria. Insomma: noi questa cosa ce l’abbiamo nel sangue.” Solleva con naturalezza un sacco di farina da 25 kg e va alle impastatrici. Nell’arco di tutta la notte lo vedremo dosare, pesare, versare, contare, confrontare, tutto a memoria, più con l’esperienza che con la bilancia. Spiega: “Questo è un lavoro di matematica. Le ricette hanno dosi precise per definizione, ma ogni notte le quantità da preparare possono variare. Allora, siccome è tutto proporzionale, bisogna calcolare all’indietro la resa degli ingredienti, calcolare la quantità di lievito, il tempo che ci metterà a lievitare, i pezzi che verranno fuori, i tempi di cottura…”

Le varietà
2,02. Appesa a una parete c’è la lista delle varietà da preparare. Si comincia con ricottini, spaccatelle e tartarughe. L’attività è febbrile, la velocità d’esecuzione spaventosa. Alessandro olia con un pennello le teglie, Franco continua con gli impasti e intanto ci spiega i segreti del lievito madre: “È qualcosa di vivo, che non deve morire: ogni tot si aggiunge un po’ di farina e lui si ricrea.” Alessandro prepara il pane pizza e dispone le teglie nelle carrelliere da venti, a lievitare sotto un apposito telo, per evitare che si formi la crosta. Franco rovescia enormi blob di impasto sul piano di lavoro e Alessandro li lavora, li divide, li stira, ne fa focacce, pagnotte, bocconcini. Si muovono come due ingranaggi perfetti dando vita a una varietà di forme impressionante, che rende il confine tra artigiano e artista sfuggente (d’altronde si chiama Arte Bianca).

2,42. Alessandro fa il fornaio da quando aveva 16 anni. Oggi ne ha 33: “Arrivo qui a mezzanotte e mezza e finisco verso le dieci. Per sei giorni alla settimana lavoro quando gli altri dormono. Ma anche il sabato notte, non credere, non è che riesci a riprendere il giro giusto.” “Come ti trovi con Franco?” “Guarda, io convivevo fino a poco tempo fa. Ma alla fine stavo più con Franco che con la mia fidanzata.” Siamo su un argomento serio. “La verità è che per una donna è difficile abituarsi a un compagno che fa questa vita,” aggiunge. In questo momento sta girando due pagnotte alla volta. Fabrizio scatta foto a raffica. “Hai una manualità incredibile,” gli dice. E lui: “Aspetta di vedere Franco, quando ha finito con gli impasti.”

Le impastatrici
3,05. In questo laboratorio sono presenti due impastatrici, una grande e una piccola, una chifferatrice (che trancia e arrotola la pasta creando ad esempio le brioches) e una sfogliatrice. E poi, naturalmente, c’è il forno. L’addetto è Raffaele, fratello di Franco, che arriva ora. Alessandro scherza: “Lui è fortunato, arriva tardi, arriva con gli occhiali da sole…” Raffaele ha 61 anni, indossa due guanti imbottiti che arrivano fino al gomito e controlla temperatura e timer delle quattro camere del forno. Poi ispeziona le carrelliere zeppe di teglie che lievitano e comincia a infornare. È piccolo ma sposta telai lunghi due metri e zeppi di pagnotte con una scioltezza invidiabile. “Ho iniziato a 14 anni, – dice. – Andavo a scuola, poi la notte al forno e poi di nuovo a scuola. Come facevo a studiare? A scuola mi addormentavo, no? Così sempre meno scuola e sempre più forno. Ed eccoci qua.”

La prima sfornata
3,28. Esce il primo pane. Delle pagnottelle integrali. I tre fornai fumano, ciascuno ha la sua sigaretta elettronica. “Non so se è un bene, – dice Alessandro. – Una volta uscivamo in cortile e facevamo una pausa, adesso neppure quella.” Ed è vero: si lavora sodo, senza sosta. È come una catena di montaggio che nessun robot potrebbe sostituire, tanta è la velocità, la specializzazione, la varietà di processi necessari a ottenere le diverse tipologie di pane. Ma il paragone è sbagliato, me lo dice Alessandro: “A 25 anni ho detto: basta, cambio lavoro. E sono andato in Bertone, in catena di montaggio. Son durato dieci giorni. Lì ero un numero, qui sono Alessandro.”

4,37. A Torino, in via Giolitti 42, c’è l’Istituto Statale Professionale per l’Arte Bianca, uno dei più antichi e rinomati d’Italia. Franco, Raffaele e Alessandro hanno imparato lavorando, senza scuole. “Ma i maestri ce li ho avuti, – dice Alessandro, – Quando si sbagliava erano stecche sui gomiti micidiali. Si imparava in fretta, te l’assicuro.”

5,30. Gran profumo e gran caldo. Andiamo a prendere caffè per tutti in piazza Madama Cristina, dove il mercato sta prendendo vita. La signora al bar chiede se vogliamo delle brioches e noi rispondiamo enigmatici: “No grazie, ne abbiamo quante vogliamo”. Alle sei Franco e Alessandro passano ai grissini, in coppia. Dopo le quaranta teglie perdo il conto. Franco confida: “Negli anni ’80 insegnavo a fare il pane al Ferrante Aporti. L’ho fatto per sette anni, due volte alla settimana. Mi chiamavano ‘professore’. Ha ha.”

La mattina
6,30. Arrivano Valter, il titolare, e Rino, il pasticcere. “Siamo qui da 25 anni, – spiega Valter. – Prima rivendita, poi laboratorio con pizza e pasticceria e infine dal ’99 panifichiamo.” “Curiamo molti aspetti: innanzitutto una grande offerta di varietà diverse, ma anche l’uso del lievito madre: è diverso dal naturale, è più digeribile e non gonfia la pancia. D’altra parte negli anni è cambiato molto l’acquirente: più esigente, ma anche più preparato, attento a ciò che mangia.” Intanto in laboratorio Rino prepara le basi per pizze e focacce. La prima parte della mattinata è dedicata al salato e poi si passa al dolce. “Il momento più bello? – scherza. – Alle dieci, quando vanno via Franco e Alessandro e io ho campo libero!”

7. Aprono le serrande. Dietro il bancone sono arrivate Sara e Debora. I primi clienti sono quelli con ordinazioni fisse, come i bar della zona. Debora: “Son dieci anni che lavoro in panificio, mi piace. Ci sono clienti-sicurezza che arrivano qui tutti i giorni, alla stessa ora, con la stessa ordinazione.” Capitano anche cose strane: “Ieri una signora di sessant’anni arriva e ti chiede: come si conserva il pane? E solo adesso te lo chiedi?”. Io e Fabrizio ridacchiamo, ma poi ci guardiamo imbarazzati: “Ehm… e come si conserva il pane?” “Mai nel nylon, l’ideale è in sacchetti di cotone, perché il pane deve respirare e così rimane croccante. Poi conviene comprare i pani grossi, durano più a lungo. Il toscano arriva a una settimana.”

7.24. Albeggia. Alcune varietà preparate stanotte: puffetti, coccodrilli, arabo, grisselle, rusticone, musichiere, segale, casereccio, schiacciata, toscano e infine dinkelberger. In realtà molte di queste varietà hanno dei soprannomi: il dinkelberger lo chiamano beckenbauer, la pasta delle tegolacce non lo possiamo dire. Alessandro: “Una volta c’era il toscano da 1 kg o il pugliese da 2, che durava una settimana. Adesso, io ve lo dico, siete viziati.” E già.

TESTI DI ENRICO REMMERT
FOTO DI FABRIZIO ESPOSITO

La Stampa (22/10/2012)

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